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Bruciano i ricordi

6 min read

Quarto e-book per l’autore de ”Stanze di Gloria”. Quattordici racconti sferzanti e introspettivi – in cui il malessere sociale e la ribellione sanno diventare provocazione e diario generazionale allo stesso tempo.
Lingua: italiano
Lunghezza: circa 12300 parole (tempo di lettura: 38-56 minuti)
Prezzo: gratis
Autore: Emiliano Bertocchi
Download: non disponibile
Estratto:

1. BRUCIANO I RICORDI NELLA TAZZA DEL MIO CESSO

(dissolvenza iniziale, dal nero)

Mi ero alzato abbastanza presto. Sarebbe meglio dire che avevo aperto gli occhi abbastanza presto. In un misto di sogni e allucinazioni avevo guardato la radiosveglia alla mia destra, le otto e cinquanta. Numeri rossi. Piccoli segmenti digitali che componevano numeri. Rossi. Richiusi gli occhi. Corsi di nuovo in quei corridoi nei quali ero stato fino a pochi minuti prima. Mi ricordai di Alessio, di quello che mi aveva fatto vedere. Uno strano registratore costruito da lui. Mi aveva fatto ridere, mentre pensavo a tutto quello che la tecnologia ci aveva offerto. Gli dissi del mio lavoro, del montaggio, gli dissi che avrei potuto fare cose a cui non avrebbe mai creduto. Poi mi ero svegliato. Sarebbe meglio dire che avevo aperto gli occhi. E la realtà della mia stanza si era palesata in tutta la sua insensatezza. Fuori il rumore della pioggia mi dava una buona scusa per non alzarmi. Rimasi così disteso sul letto a sentire il ticchettio delle gocce contro le persiane chiuse della finestra. Mi piaceva il buio, mi era sempre piaciuto. Ci avevo intitolato anche una raccolta di racconti che avevo scritto quando ero sui ventidue. Altri tempi, adesso avevo smesso con la scrittura. Non mi aveva mai fatto guadagnare un cazzo. Era da quando avevo iniziato con il porno (il montaggio di film porno, per essere precisi) che le cose erano cambiate. Le mie tasche si erano gonfiate di soldi ed ero riuscito ad andare a vivere da solo. Per festeggiare l’evento avevo anche bruciato la mia laurea, letteralmente bruciato. Era stato un giorno unico quello. Ancora me lo ricordavo. Avevo preso in affitto un appartamento di cinquanta metri quadri, una sola stanza più bagno e cucina. Mi ero sbronzato di porto e avevo fumato un paio di canne d’erba. Mi sentivo euforico come non lo ero mai stato in vita mia, finalmente potevo permettermi una casa e pensando a tutti gli anni che avevo buttato nel cesso studiando (anni che non mi avrebbero dato poi nulla, da un punto di vista lavorativo) mi prese una smania di distruggere qualcosa che appartenesse all’università. Visto che i libri non mi era mai piaciuto bruciarli e visto che fisicamente non avrei mai avuto il coraggio di mettere una bomba o di gambizzare qualcuno, presi la mia laurea da dove l’avevo riposta e la bruciai. Cioè, il bruciarla fu solo la fine del mio piccolo rituale. Prima andai nel bagno e strappai la laurea in quattro grossi pezzi. Poi li cosparsi di alcol e iniziai a bruciarne uno alla volta. Quando un pezzo stava per finire, diventando cenere e accartocciandosi su se stesso, ci accendevo il pezzo successivo. Una volta bruciati tutti e quattro i pezzi, lasciai quello che ne restava nella tazza, ci pisciai sopra e poi tirai l’acqua. Finita questa operazione mi sentii decisamente meglio. Accesi il computer, scaricai da internet una decina di spezzoni di film porno, mi feci una sega legandomi il cazzo e mettendomi delle mollette sui capezzoli, sborrai in un profilattico e poi andai a dormire. Fu una delle notti più meravigliose della mia vita.

(dissolvenza incrociata)

Tornai mentalmente di nuovo nella stanza, i ricordi sbiadivano, come i sogni, come le allucinazioni, come tutta la nostra vita. Aprii di nuovo gli occhi, la pioggia continuava a battere fuori dalla finestra. Avevo voglia di sentire un po’ di musica, bassa, in modo che si confondesse con il rumore della pioggia. Misi su un vecchio cd dei Doors e tornai al letto. Mi resi conto che era sabato, mi resi conto che non avevo un cazzo da fare e che se avessi voluto sarei potuto rimanere tutto il giorno al letto. La mia settimana lavorativa era relativamente corta e poi il lavoro lo potevo fare da casa, visto che avevo un Mac portatile e che con Final Cut potevo montare le cose direttamente là sopra.
Steso sul letto cercai di non pensare a nulla, la musica dei Doors mi cullava e così faceva la pioggia. Poi la laurea tornò all’improvviso nella mia mente (non invitata) e riflettei su tutto il tempo che avevo sprecato dentro le aule universitarie, dove i professori non mi dicevano nulla. Tutto il tempo sprecato tra facce anonime con cui non avevo mai scambiato una parola. Cercai di cacciare via questi pensieri. Ma le file in segreteria, le file per gli esami e le file per i ricevimenti erano un ricordo troppo brutto per svanire così facilmente. Tentai con più convinzione ma ancora niente da fare. Se avessi dovuto semplificare mentalmente tutto quello che avevo in testa avrei potuto ridurlo ad un semplice concetto: quello dell’attesa. L’attendere era quello che aveva caratterizzato il mio periodo di studente universitario. L’attesa, ora che i miei pensieri cercavano di espandersi, era anche una delle componenti principali di un altro mondo: quello della droga. Come scriveva Irvine Welsh (uno dei miei autori preferiti) il vero problema con le droghe era quando finivano e quindi bisognava aspettare per procurarsene di nuove. L’attesa. Sempre l’attesa.
Però mi piaceva anche aspettare in alcune occasioni, solo per quelle cose che mi interessavano veramente. Era bello aspettare prima di sborrare, era bello aspettare prima di vedere una persona a cui tenevi, era bello aspettare prima di prendersi un acido e creare tutta la situazione che avrebbe preparato il tuo viaggio. Mi alzai di nuovo e andai a pisciare. Poi aprii il frigo e bevvi un po’ di succo d’arancia. Le prossime settimane avrei dovuto lavorare parecchio, quindi era meglio se questo fine settimana lo passassi in pieno relax. Però non mi andava di rimettermi a letto a pensare e quindi decisi di farmi una doccia. Finito di lavarmi, tornai di nuovo nella stanza, aprii la finestra per fare entrare un po’ d’aria fresca e di luce e chiusi le persiane a libretto per non fare entrare la pioggia. Poi mi vestii (pantaloni blu di una vecchia tuta dell’adidas, piena di buchi a causa dei brasconi delle canne, maglietta blu con su la scritta tribe e la faccia di un indiano, infradito azzurre), spensi lo stereo, visto che l’album dei Doors era finito, e mi fumai una sigaretta. Poi decisi di guardarmi un film, volevo rivedermi qualcosa di Scorsese e optai per Raging Bull. Mi sistemai di nuovo sul letto (avevo lo schermo del televisore proprio davanti) e iniziai a guardare il film.
Il bianco e nero si addiceva al mio umore e alla giornata. Guardi tutto il film rollandomi una canna d’erba dopo la prima ora. Poi spensi la televisione e il dvd, mangiai qualcosa, bevvi una mezza bottiglia di vino rosso e andai di nuovo verso il letto.
La vita seguiva finalmente dei ritmi umani e decenti. Avevo lasciato la fretta e i problemi fuori da questa stanza. Ora che ci pensavo avevo lasciato ogni cosa al di fuori di questa stanza. Qui era sempre uno stare in balia di me stesso e dopotutto la cosa non mi dispiaceva affatto.
La pioggia intanto continuava a battere sulle persiane, le serrai insieme alle finestre e poi mi sdraiai sul letto.

…continua…

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