KULT Virtual Press

una delle prime case editrici virtuali italiane

La giostra del dolore

23 min read

Dallo stesso autore di “La crisi di un detective”, un nuovo romanzo profondo e introspettivo, dallo stile asciutto, che sa toccare temi complessi e difficili con realismo e capacità descrittiva.
Lingua: italiano
Lunghezza: circa 66700 parole (tempo di lettura: 208-304 minuti)
Prezzo: Gratis
Autore: Marco Benazzi
Download: non disponibile
Estratto:

Capitolo I

Era da poco passato il Natale e mi trovavo alla casetta a trascorrere le vacanze. Si tratta di una vecchia abitazione che, più o meno dodici anni fa, abbiamo acquistato e riattato. E’ situata sull’isola di Santorini, pacifico isolotto appartenente all’arcipelago delle Cicladi e famosa per il monastero di Perissa. E’ in quello spicchio di paradiso terrestre che solitamente passiamo le vacanze. Anche in inverno, infatti, il clima è particolarmente mite in quel braccio di mare che divide la Grecia da Creta. Così metto un tavolino fuori e armato di computer scrivo all’aperto. Ho un completo di lino bianco, una T-shirt beige e un paio di sandali tipo frate, naturalmente senza calzini, ma non sento freddo assolutamente. C’è una magia particolare nello scrivere attorniati da un simile dono della natura. Cielo e mare risultano avere una colorazione più accesa, più viva, e i contorni sono molto meno delineati. Sono lungo la strada che porta alla spiaggia dei gabbiani, dove Cesare ha piantato la sua tenda igloo. Da lì si gode un paesaggio veramente paradisiaco, scogliere frastagliate fanno da sfondo sul lato sinistro mentre una lunga serie di palmizi coprono quasi interamente il lato destro della visuale. L’aria è odorosa di tigli e l’Egeo è tiepido quanto basta a morirci dentro. La sete mi coglie sprovveduto, quindi m’incammino verso casa per prepararmi una bella caraffa con il seguente contenuto; 80% d’acqua fresca e cubetti di ghiaccio e il rimanente 20% di liquore estratto dai frutti dell’anice. Cammino con passo deciso, quasi come se stessi partecipando ad una gara contro me stesso, quando vedo spuntare Adriano, il nostro figlio minore, che corre lungo la strada in direzione mia. Ha una falcata così cadenzata che sembra appesa uscito da un centro addestramento bersaglieri. In bermuda rossi, polo blu e scarpe da tennis bianche e rosse, Adriano, volando sulle ali della gioventù, mi raggiunge in un istante. “Papà! E’ arrivato un fax dall’Italia! Dice che la nonna non sta bene!” Lo prendo in braccio e insieme guadagnamo la via di casa. Sono maledettamente in ansia per ciò che troverò scritto in quell’inopportuno fax. Adriano non mi domanda mai a che punto sto con il mio romanzo. Per la verità nessuno della mia famiglia si mostra minimamente interessato al mio lavoro. Se esercitassi il mestiere di bidello in qualche scuola del paese mostrerebbero più interesse nei miei confronti che sapermi uno scribacchino. Uno che si alza al mattino, fa colazione e poi, lungo tutto l’arco della giornata, cerca la tanto sospirata ispirazione che, però, potrebbe anche non giungere mai. E per un lavoro simile è giusto essere pagati più di un bidello? Prendo il fax da sopra il tavolino dell’ingresso e lo apro. Me lo manda mia sorella Francesca. Afferma che nostra madre è stata colpita da un ictus cerebrale e si trova in condizioni molto critiche e di recarmi al più presto a Bologna altrimenti potrei rischiare di non rivederla mai più. Sono semplicemente esterrefatto. Sono cose che uno immagina sempre debbano capitare agli altri. Mia madre poi, nella sua ipocondria, ha avuto sempre una salute di ferro. Appena rientra Marzia, gli mostro il fax. Mi siedo a tavola, ma non certamente per mangiare. Devo organizzare subito la mia partenza. Francesca non è un’allarmista come mamma. Se nel messaggio parla di condizioni molto critiche, vuol dire che mamma è veramente grave; Marzia comprende la mia afflizione e, rincuorandomi a più non posso, mi aiuta a preparare i bagagli. Lei, a differenza di me, è molto pacata, molto confortante: è di sicuro la donna più forte che io abbia mai conosciuto. Non riesco ancora a crederci. Lasciare questo paradiso incontaminato bagnato dal mare della tranquillità per trasferirmi a Bologna, al quartiere S. Donato, nella casetta con giardino dove vivono i miei, accanto alla cattedrale di S. Bartolomeo. Faccio alcuni esercizi respiratori. Non voglio che Adriano si spaventi più di tanto. Lo prendo sulle mie ginocchia e gli spiego che la nonna è molto malata e che devo andare da lei perché c’è bisogno del mio aiuto, ma che tornerò presto e che, per quel giorno, lui dovrà aver letto perlomeno tre libri a sua scelta. So che lo avrebbe fatto anche senza quel mio ‘invito alla lettura’, ma a me serviva un espediente per non farlo spaventare. E’ difficile capire che cosa significhi, questo, per un bambino di sette anni. Non so dire quanto tempo starò via. Marzia mi accompagna al traghetto, poi prendo un taxi che mi porti alla stazione di Atene dove ho prenotato un volo per Bologna. Quattrocentoventi euro per un biglietto d’andata e ritorno valido fino a sessanta giorni. E’ un biglietto a prezzo ridotto del 25%, creato appositamente per uomini d’affari o quantomeno per chi viaggia per lavoro. Il mio non è certamente un classico viaggio di lavoro! Ma, se questo può servire a farti risparmiare qualche soldo… Da Atene, prima di partire, ho chiamato mia sorella dandole gli estremi del volo così, all’arrivo, trovo Francesca e suo marito Alessandro ad attendermi. Alessandro carica le mie valige all’interno del suo Bedford Combi Cf diesel. Dimenticavo che loro viaggiano in prevalenza in pulmino. Hanno due figli, quattro cani e tre gatti. Appena partiti, Francesca comincia con il racconto dell’accaduto. Un giorno, di buon mattino, era andata a trovare papà e mamma, ma non li aveva trovati in casa. In attesa del loro ritorno cominciò a sbrigare alcune faccende domestiche come stirare, togliere la polvere dai mobili, lavare i pavimenti nelle camere da letto. Quando si accorse che il tempo passava e di papà e mamma non si vedeva nemmeno l’ombra, cominciò ad impensierirsi un po’. Sicuramente erano andati all’Ipermercato a fare spesa, ma sarebbero dovuti essere già tornati da diverse ore. Senza perdere altro tempo, si porta sul luogo previsto dove trova mamma distesa su una panchina con la borsetta sotto la testa. Era bianca come un foglio di carta da disegno. Papà era nel marasma più completo e si gingillava carico di sporte, sportine e cartoni della spesa. Nel vedere quella scena, Francesca si spaventò non poco. Li caricò entrambi sull’auto di papà, lasciando la sua posteggiata accanto al supermercato, e li scortò fino a casa. Lasciò papà a sistemare i vari pacchetti di merce comperata e volò direttamente all’ospedale con mamma. Lei, naturalmente, fece di tutto per evitare il ricovero. Sì, perché mamma è l’ipocondria fatta persona, si rasserena alla presenza del suo medico ma allo stesso tempo odia in modo viscerale ogni tipo di struttura sanitaria. All’Ospedale S. Orsola riconoscono immediatamente la gravità del malanno. Viene quindi ricoverata d’urgenza al reparto di terapia intensiva in stato di semi-incoscienza; le vengono subito somministrate le prime cure del caso. Il quadro clinico è molto critico. Durante la nottata, all’ospedale, sopravviene un improvviso peggioramento dovuto a problemi renali. A Francesca viene riferito che è solo per un miracolo se mamma ha superato la crisi. E comunque, se non si fosse trovata in un reparto di terapia intensiva al momento dello scompenso renale, di certo non sarebbe sopravvissuta. Non hanno ancora completato gli accertamenti, ma senz’altro ha avuto una batosta che la terrà a riposo forzato per diverso tempo. Insomma, è ancora viva e questo è ciò che conta, ma per restare tale dovrà cambiare totalmente il suo stile di vita. Ci dirigiamo direttamente a casa dei miei. Francesca dice che è bene che io resti a prendermi cura di papà. Il suo stato psicologico è, secondo il suo punto di vista, più preoccupante dello stato di salute di mamma. Io, chissà per quale arcano motivo, la penso allo stesso modo. Forse perché entrambi conosciamo talmente bene nostra madre che la sappiamo capace di cavarsela in qualsiasi situazione anche se, in questo preciso momento, questo modo di analizzare le due diverse situazioni appare alquanto insensato. Quando varchiamo la porta d’ingresso, papà è seduto sulla poltrona accanto alla finestra, ci aspetta. Con molta probabilità, ad ogni piccolo rombo di motore, si sarà affacciato sperando di scorgere le nostre sagome. Ci abbracciamo, come è in uso dalle nostre parti per le grandi occasioni. E’ visibilmente commosso e anche se non crolla in un pianto a dirotto, i suoi occhi sono venati di rosso, gonfi di lacrime e il suo viso è pallidissimo. E’ visibilmente scosso, gli tremano persino le gambe. Si siede sulla poltrona-letto, in salotto, mentre io porto dentro le valige. Sarà un mia impressione ma rispetto all’ultima volta che ci siamo visti, più o meno un paio d’anni fa, mi sembra abbia abbassato notevolmente la guardia. Fisicamente non è invecchiato neanche un po’, anzi, mettendo su qualche chilo nei punti giusti è quasi ringiovanito, per la verità. Ciò che mi ha colpito, invece, è la completa mancanza di vitalità, di voglia di continuare a combattere. L’importante ora è banalizzare molto sul malanno che ha colpito mamma, altrimenti l’equilibrio psichico di papà, già duramente provato dagli inganni della sua triste e lunga vita, rischia di andare nuovamente in tilt. Per dissetarci beviamo un bicchiere di carcadè che mamma prepara sapientemente con le sue mani e tiene in frigorifero ad uso bevanda di casa. Non l’ho mai potuto digerire ma, non essendoci altro da tracannare oltre l’acqua imbevibile dell’acquedotto cittadino, beviamo alla salute di mamma Mariù. Non credo, però, che mia madre avrebbe gradito quel nostro brindisi. Come “sciacquabudella” non è male, per inzupparvi dei biscotti al burro può ancora andare ma, perbacco, è così dolce che appena lo assaggi pensi che sia raccomandata dall’Associazione Nazionale Medici Dentisti. Insomma, se hai attraversato a piedi il Sahara va anche bene, altrimenti è veramente imbevibile. Ci accomodiamo in salotto. Papà, grazie ad una mossa astuta di Francesca, sa che alla mamma non sono ancora state concesse visite per cui, da quel fatidico giorno, non l’ha più vista. Io, allora, con una delle mie solite scuse mi allontano di soppiatto e prendo il macinino dei miei genitori. E’ una Fiat Topolino del ’44 nera con circa trecentocinquantamila chilometri sul groppone. Un’auto che ha circa sessant’anni ma è ancora come nuova. La tengono in un box, coperta da un telo di naylon grigio, i sedili sono stati rivestiti con foderine nuove, non ha il climatizzatore, l’autoradio, l’ABS, l’airbag, il servosterzo, ma ha una tale personalità da fare arrossire parecchie delle sue nipoti. Quando ci si trova al volante di questa macchina ci si sente trasportati dentro un romanzo di G. H. Wells e sembra di aver percorso a ritroso più di mezzo secolo. Non è né veloce né tantomeno scattante ma sulle strade d’oggi, liscie come un biliardo, fila via sicura come poche. Papà la comprò per una miseria ad un’asta pubblica nel maggio del ’45, a pochi giorni dalla fine del secondo conflitto mondiale. All’epoca mio padre aveva all’incirca trent’otto anni, ma aveva già deciso che quella sarebbe stata l’ultima automobile della sua vita. Ed è stato grazie al suo stile di vita così sobrio da tuttofare modello che questo autentico pezzo d’antiquariato, alle soglie del secondo millennio, può scorrazzare ancora allegramente per le vie del mondo senza nulla invidiare ai nuovi modelli. Al S. Orsola, nell’atrio, un’infermiera stranamente manierosa mi instrada verso il reparto terapia intensiva. In cuor mio credo che nessuno si possa mai abituare al clima ospedaliero, a malapena vi si troveranno a proprio agio giusto il personale medico e quello paramedico. L’ospedale è da sempre un luogo di sofferenza, dolore, morte. IL S. Orsola, però, non assomiglia assolutamente ad un ospedale di tipo tradizionale. La modernità con cui è stato concepito lo pone su un altro piano, lo proietta direttamente tra gli ospedali della nuova generazione. Non più cronicari dove la gente è considerata un numero e la salute, per le categorie poco danarose, un optional, ma vere e proprie case di cura dove regna la cortesia, l’umanità e la solidarietà umana. Questo dovrebbe essere, in ogni parte del mondo cosiddetto civilizzato, il prototipo dell’ospedale futuribile. I pavimenti sono tutti in marmo rosa tirato a specchio, in ogni stanza c’è un impianto stereofonico e televisivo. Accanto agli uffici amministrativi poi, c’è una fornitissima biblioteca con più di diecimila titoli. A pensarci bene, non emana neppure quel nauseabondo odore caratteristico degli ospedali in genere. Qui, l’odore preminente, lo fa accostare a quello che si sentirebbe nella sala da pranzo di un albergo rivierasco la mattina presto. Prendo l’ascensore e pigio il tasto corrispondente al numero tre. Giunto al piano, seguo le indicazioni che mi portano al reparto terapia intensiva. Mi presento alla caposala, le chiedo se è possibile vedere mia madre. La risposta, come mi aspettavo, è negativa. La signora Vasari non è ancora fuori pericolo ed è bene che non subisca alcun tipo di choc emotivo. La informo che vengo direttamente dalla Grecia e che mi basterebbe vederla anche solo per pochi minuti. A quest’ultima richiesta, il cuore della caposala si disfa come neve al sole di primavera. Posso entrare ma non la devo minimamente disturbare. Passo davanti a diverse camere. Qui, i pazienti sono perlopiù in stato di semi-incoscienza o di incoscienza totale, per cui vengono alimentati tramite fleboclisi. E’ questo il capolinea della vita. Ciò che mi spaventa maggiormente è l’impatto iniziale; dopo circa due anni che non vedo mamma, per di più segnata dai recenti malanni fisici, non so chi mi troverò di fronte. Il trascorrere del tempo cambia inesorabilmente gli uomini e le cose. Anche mia moglie, i miei figli, i miei gatti, il mio cane ed io stesso cambiamo istante dopo istante, però frequentandoci quotidianamente non lo si nota. Sbircio all’interno della camera contrassegnata con il numero trentaquattro: eccola là. Anche se fin da quando ero piccolo sono abituato a vedere la mamma sdraiata sul letto o sul divano, la visione di lei, oggi, mi emoziona fortemente. Vederla là, su quello squallido giaciglio, con la maschera per l’ossigeno che gli copre il naso e la bocca, e l’apparecchio che tiene l’équipe medica costantemente informata sui valori della pressione sanguigna e della frequenza cardiaca pare un pilota di aerei militari subito dopo essere stato abbattuto. E’ bianca un po’ più di un albino e un po’ meno di Michael Jackson, le sue occhiaie sono di un profondo mai visto. Il suo viso sembra scolpito sulla roccia. Da ogni ruga si scopre il segno di una delle sue abituali espressioni, quasi sempre negative: solchi profondi pieni di diffidenza, d’incontentabilità e d’insoddisfazione. Questi segni sono profondamente incisi, anche se il suo viso è rilassato. I capelli biondi, tinti, sono cosi fitti e resistenti che non sembrano appartenerle. Il confronto con papà è inevitabile: lui ha il viso massiccio e la pelle che pare tirata a lucido. Ha un testone, 60 cm. di circonferenza, coi capelli bianchi e rasati rigorosamente a sei millimetri di lunghezza. La mamma non ha mai usato alcun tipo di trucco per il viso ma, nonostante ciò, non ha mai dimostrato i suoi anni. Ed anche ora, pesantemente segnata dalla malattia ed ancora in pericolo di vita, non sembra avere più di sessanta – sessantacinque anni. Mi siedo con delicatezza ai piedi del letto e guardo con angoscia quegli strumenti digitali che cercano disperatamente di avvisarci se la situazione improvvisamente dovesse precipitare. Controllo costantemente la frequenza cardiaca: si va dai 49 battiti al minuto fino a un massimo di 54. Per il suo stato momentaneo è evidentemente il ritmo giusto. D’altronde, se ci fossero delle complicazioni cardiache se ne sarebbero certamente accorti. Continuo con insistenza maniacale ad osservare i numeri digitali che via via si alternano e penso al mio tremendo stato d’animo, quando la sento parlare: “Sei tu, Marco. Sei venuto a dare l’estremo saluto a tua madre?” E’ un classico, questo, del repertorio tragico di mamma. Prima rimostranza, motivazioni luttuose della mia presenza; poi la solita dose di vittimismo. Mi sporgo per alzargli lentamente la mascherina dalla bocca e la bacio teneramente. “No, non è assolutamente per questo motivo che sono qui. Non sei malata a tal punto. Sarei venuto ugualmente per la presentazione dell’ultimo libro che ho pubblicato, perciò non farti impressionare dalla mia presenza e cerca di ristabilirti presto che papà ha bisogno di te.” Può sembrare un modo stupido per rivolgersi a un moribondo, ma è anche l’unico possibile capace di ingannare la mamma, che da sempre è una persona dal sospetto facile e difficilmente ingannabile. “Non prendermi per i fondelli, Marco.” Apre leggermente gli occhi poi, lentamente, comincia il romanzo sceneggiato dal giorno in cui si sentì male. Sarebbe stata una brava commediografa se mai avesse conosciuto le proprie capacità. Riesce a teatralizzare ogni tipo di situazione mantenendo sempre per sé la parte da protagonista. “Pregavo Papa Giovanni, il papa buono, che nei momenti duri che hanno costellato la mia esistenza mi ha sempre aiutato a superarli con la forza dell’amore… ecco perché oggi sono ancora fra voi.” Il merito è da attribuire anche a Francesca, notoriamente maestra nell’affrontare a mani nude i momenti tragici che la vita ci riserba. Io, invece, perdo le staffe per un nonnulla ed è solo grazie a Dio se Francesca ha il lato caratteriale tipico della famiglia. Mi fa poi un lungo resoconto su ciò che i medici le hanno detto. Dal racconto che mi propina tiro una sola conclusione: i medici hanno trascorso quest’ultimo periodo al suo capezzale senza avere neppure il tempo per riposare. Di certo c’è che l’intero staff sanitario è rimasto esterrefatto dal suo grado di resistenza fisica: ha l’energia di una quarantenne. Da buona consigliera, mi ordina di non impressionare papà oltre il dovuto. “Mi raccomando, Marco, non fare alcun riferimento a papà dell’ictus. Spiegagli solamente che si è trattato di un improvviso sbalzo della pressione sanguigna questo basterà per non allarmarlo. Digli che ho bisogno di assoluto riposo e lui capirà. In ogni caso, Marco, non fare alcun accenno ai soldi che dovremo pagare per il mio ricovero. Il danaro, sai, è da sessant’anni la sua croce.” Non so perché mai me lo dica ora, ma annuisco. Parlandone con Francesca troveremo assieme la soluzione più consona al problema specifico. Certo non si può tenere nascosto che mamma ha avuto un ictus cerebrale; quando si è stati colpiti da un ictus, se anche gli si sopravvive, si rimane sotto controllo continuo per tutto il resto della vita. Comunque non è né il luogo né il momento per spiegare alla mamma tutto questo. Mi trattengo ancora e la osservo: è in un perenne stato di dormiveglia e si agita come pochi. Nel suo continuo dimenarsi si strappa l’ago della flebo così chiamo un infermiere tramite l’apposito campanello che in pochi istanti arriva e ripara il guaio. L’infermiere mi avverte che è già la terza volta che agitandosi, manda l’ago fuori vena. Cerca quindi di assicurarglielo più saldamente fissandogli il tubicino con svariati giri di cerotto; Ora non dovrebbe presentare più alcun problema. Quando lascio l’ospedale mi sento alquanto abbattuto e agitato, ma non riesco a trovare la forza per piangere. Vedere mia madre in questo stato è come osservare un gatto disteso sull’asfalto di una strada trafficata, che giace lungo disteso sul bordo accanto a un fosso pieno di margherite e papaveri in fiore. Quando torno alla base, cambio subito maschera. Da sempre, infatti, il mio ruolo in questa vasta e armoniosa famiglia è quello di buffone di corte. Gli altri da me si aspettano continuamente battute a raffica e, siccome rientra nel mio modo di essere e di apparire, sono condannato ad una vita da ergastolano della battuta ad ogni costo. So che è questo che gli altri si aspettano da me. Ha nessuno importa se dietro il comico c’è il tragico. Un ruolo simile, se lo hai interpretato una prima volta con successo, ti resta appiccicato per tutto il proseguo della carriera, quindi della vita. Lascio l’auto di papà parcheggiata sul ciglio della strada e m’incammino a piedi verso casa. Papà mi viene incontro sulla soglia. “Dove hai lasciato l’automobile, Marco?” “Ecco, papà, sono stato in ospedale da mamma. Ma, proprio mentre io entravo in camera, mamma stava già sistemando le sue cose. Il medico le ha consigliato di distrarsi con un breve periodo di vacanza lontano da tutto il suo abituale mondo. Perciò le ho consigliato un breve soggiorno al Monte Fumaiolo, sull’Appennino Tosco-Emiliano, dove pace e tranquillità regnano sovrane. Naturalmente le ho lasciato l’automobile tornandomene a casa in bus .” Quando vedo papà che sorride felice alla notizia che mamma si sia ripresa così rapidamente, ho una voglia pazza di sprofondare in un abisso senza fine. E’ come se avessi rubato un pacchetto di caramelle a un bambino promettendo di portargli in cambio la maglia della Juventus appartenuta a Alessandro Del Piero. Non è giusto comportarsi in maniera simile ma è quantomeno opportuno. Poi Francesca, ignara di tutto, da un occhiata al vialetto d’ingresso e in un istante fa crollare il mio castello di bugie. “Marco sei proprio incorreggibile! La macchina di papà l’hai lasciata come è tuo solito fare sul ciglio del viale che conduce alla casa. Tuo figlio è da sempre un eterno bambinone.” Una lunga risata collettiva mi permette di superare, non senza alcun affanno, la fase più critica del mio racconto. Cerco, in ogni modo e maniera, di uscire da quel pericolosissimo angolo. Accendo la televisione e mi sdraio sul divano giaciglio preferito di Baldo, il micio di casa. Sul primo canale trasmettono una partita, Juventus contro Real Madrid, e sta vincendo la Juventus naturalmente. Papà non ha mai creduto che mamma avesse lasciato l’ospedale, ma cerca di evitare d’entrare in argomento. “Come ti è parsa, Marco? L’hai trovata molto giù?” Poi, dopo una brevissima pausa: “Quando potrà tornare a casa?” “Non è mai stata in pericolo di vita, papà, ma dovrà rimanere al S. Orsola per un altro po’ di tempo. Ti manda un abbraccio forte e dice che devi stare tranquillo.” Non è curioso di sapere che tipo di malanno l’abbia colpita. Francesca, intanto, dalla poltrona ove è seduta mi fa segno di non parlare. Restiamo tutti e quattro in religioso silenzio a guardare la partita. La Juventus è in vantaggio per due a uno. Francesca, mentre papà segue appassionatamente l’incontro clou dell’odierno turno di Champions League, si alza lentamente dalla poltrona e con un gesto mi indica la porta della cantina, poi se ne va. In realtà è un’ex-cantina ora divenuta in parte laboratorio di elettronica e meccanica ed in parte palestra interamente autocostruita. Le due stanze sono divise da una sottile parete di cartongesso. Francesca è là che aspetta. Io lascio l’incontro, proprio durante un calcio di punizione diretto dal limite dell’area Juventina, come se andassi in bagno. Papà e Alessandro non si girano neppure. Scendo le scale, entro in palestra e mi chiudo alle spalle la porta evitando il minimo rumore. Francesca è distesa sulla panca per gli addominali, io mi ci siedo accanto su di un piccolo sgabello a tre piedi. Sin da bambina, Francesca aveva dovuto lottare aspramente con il mondo che gli apparteneva, combattendo contro la miseria più nera che a quei tempi, nella nostra famiglia, era di casa. Questa scuola di vita ha forgiato il suo carattere rendendola sospettosa quanto basta, nonché una risparmiatrice totalmente al di fuori dell’ordinario. La praticità è poi il suo pregio migliore. Ora Francesca ha due splendidi figli. E’ una Madre-amica, una di quelle donne che seguono i figli con il distacco dovuto. E questo fin dalla più tenera età. Ha un figlio di ventisette anni laureando in Ingegneria Meccanica, e lei gli arriva ancora degli scappellotti da farlo scappare a gambe levate. Il mio rapporto con Francesca è rimasto immutato negli anni. Nonostante ci si veda poco e la nostra età superi il mezzo secolo, quando stiamo insieme ci divertiamo come bambini al Luna Park. Il nostro gioco si basa su di una profonda e reciproca stima. Del resto come si potrebbe giocare a mosca cieca se chi è bendato in realtà ci vede benissimo? “Come hai trovato la mamma, Marco?” Ammetto di averla trovata in condizioni un po’ preoccupanti. “Il medico ha detto che non rimane altro che aspettare e sperare non vi siano rimasti danni permanenti…” Fa una espressione speranzosa seguita da una breve pausa. “Anche papà mi impensierisce molto. Gli ho già chiesto se vuole momentaneamente trasferirsi da noi, ma mi ha risposto che senza Mariù, il suo laboratorio, la sua palestra e il suo gatto non riuscirebbe a sopravvivere più di una settimana. Annuisco. “Quanto pensi di rimanere?” “Mah, il biglietto è valido per un massimo di sessanta giorni.” “Mio Dio! Voglio sperare che bastino!” Risponde alzando il busto ripetutamente come si fa quando si allena la parte alta della parete addominale. “Per almeno questo periodo rimango io a far compagnia a papà, quindi Francesca smettila di preoccuparti. Me la caverò bene, vedrai. Sono un perfetto casalingo.” Un sorriso incredulo spunta sul suo volto. “Sei sicuro? Guarda che papà è da seguire come un lattante.” “Sono al corrente del suo stato e la cosa non mi spaventa affatto. So prendermi le mie responsabilità, quando occorre.” “D’accordo, allora.” Francesca mi ragguaglia sul modus vivendi di mamma e papà. L’importante, dice, è cercare di far andare tutto liscio, senza scossoni. Il loro ritmo di vita è uguale oramai da decenni, spiega, ed è scandito da orari molto precisi. “Papà si alza presto la mattina, intorno alle sei e mezza, poi scende giù all’edicola di Piazza Duomo per acquistare il quotidiano. Per lui è il momento più bello della giorno che va ad iniziare, ha tutta la casa per sé. Intorno alle nove porta una tazza di latte e cacao alla mamma, prende la pillola per la pressione, e ascolta il giornale radio. Il cacao deve essere zuccherato abbondantemente, non amaro. “Sai, Marco, papà negli ultimi anni finge di lavorare… alle dipendenze di un datore fantastico magari…ma questo lo fa sentire meglio. Vive alla giornata.” Mi illustra i vari tipi di medicinali che papà ogni giorno, da nove anni a questa parte, prende abitualmente. Sono obbiettivamente una caterva. Se solo riuscissi a convertirlo ad assumere succo di aglio coadiuvato con del training autogeno! Io, personalmente, mantengo bassa la pressione in questo modo. Ho portato con me lo sfigmomanometro quindi, quando misuro la mia, lo farò anche a lui. Alcuni componenti di queste medicine sono delle vere e proprie cariche al plastico per il fegato e reni. Francesca continua ad illustrarmi quella che è una loro giornata tipo. La loro routine quotidiana comprende anche dei precisi appuntamenti televisivi. Prometto che cercherò di rispettare ogni abitudine, sana o malata che sia, ma nel frattempo mi scervello per cercare di dare una scossa piena di interessi in quel sistema di vita tutto grigiore e noia. E’ più forte di me, ma non riesco a non immischiarmi nella vita altrui, soprattutto se queste sono le persone che mi hanno dato la vita. In particolar modo vorrei distogliere papà dalla visione continua di film d’autore durante l’intero pomeriggio. Sono preziosi momenti di vita banalmente dissipati: vivere in una preziosa regione come l’Emilia Romagna piena di storia, di natura, di sole e rimanere segregati tra le mura domestiche a fissare uno schermo luminoso. Mio Dio, la campagna è a meno di mezzora di macchina da qui, il mare a un ora di autostrada. “Stavo dimenticando una cosa importante, Marco. Papà continua a lavorare abitualmente nel suo laboratorio elettromeccanico, ma purtroppo non riesce più a raggiungere certi risultati; questa cosa lo deprime molto. Ricorderai certamente come amava essere considerato il ‘tuttofare’ più in gamba del quartiere. Ora, spesso fatica nel far funzionare l’asciugacapelli.” Le lacrime le rigano il viso obbligandola ad abbassare lo sguardo. “Se ti vede mentre smonti il fondo del tostapane per ripulirlo dalle briciole, ti squadra come se si trovasse davanti un genio assoluto come Galileo o Leonardo.” “Tu non sarai un genio, ma per i piccoli lavori di manutenzione della casa, hai preso tutto da lui!” Ricordo che da bambini Francesca sapeva andare in bicicletta a quattro anni o poco più mentre io, a sette, avevo ancora le ruotine posteriori. A me regalarono un meccano per Natale e finì che ci giocò lei perché io ero capace solo di ingoiarmi tutti i bulloni. Può sembrare assurdo ma è proprio la verità. “Cerca di compiacerlo, Marco. Dagli una mano, senza però farlo sentire come uno spazzolino da denti che da un giorno all’altro passa da oggetto fondamentale a materiale sintetico da fondere. Se non entra in agitazione nervosa, se la cava ancora discretamente bene.” Si alza dalla panca, avviandosi alla porta. “Ora facciamo ritorno alla base prima che credano che ce la siamo data a gambe.” La partita non è ancora terminata. La Juventus continua a vincere. E, proprio mentre facciamo rientro in salotto, Alessandro Del Piero ha appena segnato un goal da antologia. In silenzio guardiamo più volte e da diverse angolature il replay dell’impresa. Francesca e Alessandro, Milanisti sfegatati quindi anti-juventini fino allo spasimo, a questo punto se ne vanno. Resto solo con papà, bianconero dal 27′. Non riesco a ricordare quanti anni siano trascorsi dall’ultima volta che sono rimasto solo con mio padre. Mentre scorrono le ultime azioni di gioco della partita, io mi annoto sulla mia agenda elettronica le cose che Francesca mi ha detto. In cucina me la cavo discretamente, e i lavori di casa li sbrigo senza infamia e senza lode, ma il fatto di fungere da vice-mamma mi abbatte non poco. Prima di andarsene Francesca ci ha preparato la cena quindi, verso le sette, vado in cucina a riscaldarla. Apparecchio la tavola per due. Papà al suo solito posto, a capotavola, io dall’altro capo della tavola. Papà mi fissa con uno sguardo interrogativo. Metto sulla tavola l’aceto, l’olio, il peperoncino, il sale, i piatti, i bicchieri e le posate. Piazzo il tegame ancora rovente al centro della tavola, su di un tagliere rotondo. “Dimmi Marco, chi ti ha insegnato a cavartela così bene in cucina?” Si chiede lui con interesse crescente. “La cena non è opera mia, papà. L’ha cucinata Francesca. Io l’ho solo messa sul forno per riscaldarla. Su, adesso mangiamo.” Da come sogghigna, sono certo che non ha creduto alla mia risposta. Anche perché lui era si il mago del cacciavite, ma tra i fornelli non sapeva proprio minimamente come cavarsela. Sono arrivato anche a pensare che per lui sarebbe stato più semplice smontare e rimontare la caldaia a vapore di un’industria che cucinarsi una modesta frittata. La cena è squisita e, dopo, continua ad abbronzarsi di fronte al piccolo schermo. Io, intanto, rigoverno con calma la cucina. Poi comincio a disfare i miei bagagli e a sistemare tutte le mie cose nella camera degli ospiti, in fondo al corridoio. Prendo una coperta dalla stanza di mamma. Papà mi guarda e scuote la testa. “Non mi dire che senti freddo, Marco. I termosifoni delle camere, per la notte, sono regolati sui 18°C, così da avere il giusto caldo senza però raggiungere le temperature africane che minano la salute e aumentano il prodursi delle rugiade acide, inutilmente.” Detto fra noi, io come mamma amo dormire in pieno inverno con una coperta in meno ma con la stanza ben riscaldata. Mio padre invece, tiene il riscaldamento della casa troppo basso pensando di economizzare ma mia madre, in risposta, dorme per tutta la durata del freddo intenso con la termocoperta accesa; morale della favola, i soldi che vengono risparmiati dal gas, si spendono con gli interessi in bollette della luce. Questi ragionamenti, però, è bene che rimangano solo miei: sia papà che mamma certamente la prenderebbero come una lezione non voluta e si offenderebbero a morte. Papà e mamma, con molta probabilità, non dormono assieme dalla luna di miele, sessantadue anni fa. Il loro modo di dormire, soprattutto quello di papà, non consentiva ad entrambi di restare su di un letto a due piazze. Trattasi di un chiaro caso di ‘incompatibilità narcotica’. “Papà, io vado a dormire, tu che fai rimani?” Con un’espressione alquanto scocciata spegne la TV con il telecomando mentre si alza “al rallenty” dalla poltrona. Poi, in sequenza, abbassa leggermente il termostato di regolazione della caldaia, controlla se il rubinetto del gas è stato chiuso, che le sicure alle finestre e alla porta d’ingresso siano state inserite. Come ogni sera, del resto, da quando ho imparato a conoscerlo io. Spegne le luci tranne quelle del corridoio poi entra in camera sua. Quella degli ospiti è immediatamente prima della sua; avrò così la possibilità di sentire se avesse bisogno di soccorso. Sento la temperatura del mio radiatore e di conseguenza chiudo la tapparella della finestra. Appena stesa la coperta supplementare, mi infilo a letto e mi tuffo in pochi istanti fra le braccia di Morfeo.

…continua…

About Author

Rispondi

| Newsphere by AF themes.