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Il Guardiano di Notte

6 min read

Lingua: italiano
Lunghezza: circa 14700 parole (tempo di lettura: 46-66 minuti)
Prezzo: Gratis
Autore: Claudio Chillemi
Download: non disponibile
Estratto:

Il Guardiano di Notte

Stanotte ho lavorato fino a tardi, la pioggia batteva incessantemente sui vetri opachi della fabbrica. Ho passeggiato lentamente come usavo fare di solito quando iniziavo il mio turno di guardia. Non avevo alcun compagno, tranne il rumore delle mie scarpe che risuonava in quel grande capannone vuoto. Le immense macchine, che il giorno rumoreggiavano roboanti, durante la notte erano come giganti dormienti, bloccate nel movimento in strane forme, chi all’inizio di un percorso, chi alla fine, come se l’ignota mano che le aveva spente avesse fermato anche il tempo. Le conoscevo molto bene, e ad ognuna avevo dato un nome. Vi era Eleonora, la bella imbottigliatrice; Giovanna, la pesante inscatolatrice; e Lara (sì, come quella del film) la dolce piccola gru che esportava le grandi scatole di vino da tavola.
Avevo dato a quelle macchine il nome degli amori della mia vita: mia moglie, mia figli e il mio cane; e, come se non bastasse, ci parlavo pure, sereno e tranquillo che loro mi stessero ad ascoltare. ”Come va, cara, stanotte?”, chiesi ad Eleonora, accarezzandola e pulendola del suo grasso in eccesso. Aspettavo, aspettavo la risposta, che giungeva immancabilmente, attraverso un leggero scricchiolio, un lento raffreddarsi del metallo che strideva nel contorcersi. Allora, non mi sentivo più solo, mi vedevo a casa con le vecchie pantofole ormai spelacchiate, ma comode e confortanti e mi rilassavo, guardavo la televisione che, in quel buio immenso del capannone industriale, erano i lampi e i giochi di luce che la luna e le stelle sapevano fare.
In quell’usuale tran-tran, non c’era spazio per la malinconia, né per la depressione, né, tanto meno, per il sonno. Il sonno, sì, ne avevo sentito parlare, era un concetto antico che risaliva ai tempi della mia gioventù. Il sonno, lo avevo perso di vista ormai da trent’anni. Purtroppo, i sogni non erano andati via con lui. Questa notte ho lavorato fino a tardi, é successo un fatto strano, qualcuno è venuto a trovarmi.
Passeggiavo accanto ai miei cari, beandomi dolcemente della loro presenza, ma un sibilo mi destò. Un rumore strano, una cantilena grezza e sporca, priva di qualcosa da dire. ”Un ladro?”, pensai, e sorrisi. Che in tutta la mia vita me ne fosse capitato uno! Mai. E proprio oggi, ecco che l’intruso si faceva sentire, oggi che già ero in pensione a godermi un beato riposo. E’ sempre così, non sai mai quando un estraneo si affaccia nella tua vita, e magari te la ruba. Ma, refrattario ad ogni considerazione esistenzialista, mi acquattai dietro ad una porta, impugnai con leggero tremore la mia vecchia Berretta (non la oliavo da tre anni), e guardai lo strano riflesso di me apparso su un vetro. Mi trovai buffo, quasi irritante, in quella posa innaturale che dava un’arma impugnata. Ma non potevo distrarmi, sì, non potevo. Qualcuno stava entrando a turbare la tranquillità dei miei cari, e non potevo permetterlo. Trattenni il respiro, con abile mossa del pollice alzai il cane della pistola, e, schiarita la voce, gridai con forza: ”Chi va là?”.
Per un lungo momento il tempo parve fermarsi, e, attorno a me, cessò ogni rumore. Poi, udii un fruscio, allora, armato più di coraggio che della mia rivoltella, mi feci avanti proprio verso il luogo ove, probabilmente, si trovava l’intruso. Fu un attimo, lo vidi chino tentare di nascondersi dietro alcune casse; appena mi scorse sgranò gli occhi, e si alzò di scatto tentando la fuga. ”Fermo! Fermo o sparo!”, ma l’uomo non poteva sentirmi, e continuò la sua corsa. Io presi pancia e coraggio e lo inseguii con risolutezza. Il giovane ladro (perché di un giovane si trattava), mi costrinse ad una faticosissima gimcana, saltando scatole e macchinari, evitando utensili e attrezzi, fino ad arrivare ad un capannone decentrato. Si trattava di una vetusta costruzione, risalente a diversi anni prima che io entrassi in fabbrica. Ormai, era ampiamente in disuso, ed era usata da cani e gatti per bivaccare, e dai proprietari della fabbrica per accatastarci materiale di scarto. Qui, in questo ambiente tetro ed oscuro, che aveva l’inconfondibile profumo del fallimento, io incontrai il mio destino. Anch’esso era piuttosto buio, irrimediabilmente tetro e decisamente fallimentare: aveva capelli folti e neri, occhi chiari e profondi, mento sporgente e naso aquilino. Fu al destino che sparai in fronte.
Lo vidi cadere lentamente, quasi che il mio occhio non volesse credere a ciò che stava credendo; quasi che la mia mano, non si fosse mossa nel premere il grilletto; quasi che io non fossi stato lì. Mi avvicinai all’intruso, che ormai giaceva esanime, riverso a bocconi sul suo stesso sangue, e lo chiamai: ”Ehi tu!”. Ma non ottenni risposta e, sorridendo tra me e me, mi sedetti accanto a lui, aspettando il da farsi.
Evidentemente qualcuno aveva sentito lo sparo, oppure l’allarme della fabbrica aveva funzionato a dovere, perché, dopo pochi minuti, si avvertì chiarissimo il suono di alcune sirene della polizia. In breve, quel luogo oscuro e solitario, divenne luminoso ed affollato. Mi dovetti districare tra le molte domande e i molti perché. A quanto pare, il ladro che avevo ucciso con l’unico colpo di pistola della mia vita, era disarmato; e tutti mi chiedevano spiegazioni sul perché avessi agito con tanta ferocia. Non potevo dir loro ciò che avevo provato, anche perché, in parte, non lo sapevo neanch’io.
Quando il colpo era partito, il mio cervello aveva di sicuro elaborato una giustificazione, una motivazione per quel gesto estremo: ma io non ricordavo nulla. Non sapevo perché avevo ucciso e, per quante domande mi facessero, io non riuscivo proprio a ricordarlo. Mentre ero fermo ad osservare il cadavere di quel ragazzo che la mia amnesia aveva ucciso, mi accorsi che i suoi occhi mi fissavano. No, non parlo dei suoi veri occhi, ma dell’immagine che ne avevo nella mia mente: io avevo già visto quegli occhi. Guardai l’orologio e mi accorsi che da lì ad un’ora il mio turno sarebbe finito. E, approfittando della presenza del direttore della fabbrica, sopraggiunto nel frattempo, chiesi rispettosamente di poter tornare a casa, dalla mia vera famiglia. Lui mi guardò sorpreso, e mi disse: ”Credo che la polizia voglia ancora interrogarla”. E fu così che passai la mia prima mattinata feriale da sveglio.
Mi condussero in questura su un’automobile piuttosto veloce, ed io osservai la città scorrere sotto i miei occhi come una serie infinita di colori ed immagini, senza riuscire a metterne a fuoco nessuna. In effetti, molte di quelle visioni erano del tutto nuove per me. Non pensavo che il sole riuscisse a salire così in alto nel cielo, forse anche più della luna. Non pensavo che potesse illuminare così nitidamente ogni angolo della città, rendendolo così esplicitò da mortificare ogni immaginazione; ed infine, non credevo che il mondo fosse diventato così complesso e caotico, così complicato ed incerto. Sì, ero stato sveglio qualche domenica mattina, ma guardavo fuori di casa attraverso il discreto occhio di una persiana; e le strade, si sa, di domenica sono deserte. E quando, in estate, avevo qualche settimana di riposo, per non perdere l’abitudine, anche allora vegliavo la notte e dormivo il giorno. Ecco perché il mattino mi sorprese in pieno. Mi colse come un’onda sul mare sereno, come una brezza in una giornata afosa, come la realtà dopo un lungo sogno. Mi sentii sballottato da un’automobile all’altra, da un ufficio all’altro, da una faccia all’altra. Tutti mi parlavano, e mi chiedevano cose di cui non sapevo nulla. Di quell’omicidio mi restavano solo i grandi occhi del ladro che mi guardavano.
Stanotte ho lavorato fino a tardi, ma non sono tornato a casa dopo il lavoro. Ho passato quasi tre giorni nella questura della mia città, per rispondere di un delitto commesso da me, ma di cui non sapevo nulla. Quando, finalmente, mi si aprirono le porte del carcere in cui ero rinchiuso, un avvocato d’ufficio mi accompagnò fino a casa, rassicurandomi che gli inquirenti avevano creduto alla mia storia, ed io avevo ucciso solo per legittima difesa. L’avvocato mi parve contento, felice di aver risolto brillantemente il mio caso; io sapevo fin troppo bene di aver ucciso per nulla, anche se quegli occhi continuavano a tormentarmi, senza però rivelarmi il loro nome.

…continua…

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