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Conta il Racconto che Conta II

6 min read

I cinque racconti vincitori del secondo concorso letterario indetto da Racconti&Letteratura (rispettivamente di Giovanni Bogani, Massimo Pusceddu Miro, Maria Chiara Falletti, Paolo Goglio e Marco Bertani Fantini)
Lingua: italiano
Lunghezza: circa 12400 parole (tempo di lettura: 38-56 minuti)
Prezzo: Gratis
Autore: AA.VV.
Download: non disponibile
Estratto:

Casa Ejzenstejn

Giovanni Bogani
(Primo Classificato)





”Una bibliotecaria guadagna 1500 rubli al mese, un pranzo al ristorante può costarne novecento”. Il signor Klejman è un russo di sessant’anni, abbastanza per averne viste di tutti i colori, la guerra quando era bambino, e poi mezzo secolo di socialismo reale, Stalin, le grandi illusioni, l’unificazione forzata e la comunione di tutto, i vestiti tutti uguali, i grandi magazzini Gum, le sfilate del Primo maggio, e il cinema. Lui amava il cinema, era un ragazzo intelligente, amava anche Puskin, Gogol, soprattutto Dostoevskij, e Tolstoj, ma un ragazzo cresciuto negli anni ’50 a Mosca non poteva non amare il cinema. Amava quello che di spirituale c’era nel cinema, anche se ovunque si diceva che quello che faceva la forza di quell’arte era il suo realismo: ma intuiva che non era soltanto quello, intuiva che in quel film sulla terra e sull’uomo, sulle stagioni e sulla rivoluzione, che si chiamava ”Zemlja”, terra, c’era di più, che c’erano millenni di religiosità persino precristiana, pagana, che c’era il miracolo della vita, e non soltanto il realismo socialista. Intuiva che c’era di più, che c’era la meraviglia del caleidoscopio cubista delle immagini, che c’era poesia delle macchine, dello scontro violento fra il bianco e il nero, inquadrature che arrivavano da Piero della Francesca e da Leonardo, dai preraffaelliti e da El Greco, nei film di Ejzenstejn. Per farla breve, si era innamorato del cinema, e quando ci si innamora non si smette mai più. Era andato alla scuola del cinema, con quel nome strano – Vgik – aveva conosciuto tutti i grandi registi di un mondo che sembrava stare alla pari con il mondo americano, con gli altri padroni dell’universo. Non erano soltanto i registi sovietici, erano gli intellettuali di una nuova arte, a cui almeno un terzo del mondo intellettuale guardava come a modelli. E lui era dentro questo centro dell’universo, con la voglia di capire, con la voglia di amare quei film, quelle storie, quella scuola dove nascevano i nuovi talenti, quel mondo nuovo che doveva nascere, la visione che era piantata nel suo cervello, quando il futuro era un’astronave che portava scritto un nome in cirillico: Sputnik
E aveva conosciuto il potere, il potere dei gerarchi comunisti, quelli che erano capaci di fare e disfare carriere, aveva conosciuto registi capaci di cambiare il mondo con le loro storie, di costruire inimmaginabili fantascienze soltanto con un po’ di terra, dell’acqua, e lentissimi movimenti della macchina da presa, come attraversando mondi su mondi, al rallentatore – li aveva conosciuti, e li aveva visti sconfitti e umiliati dal potere, ne aveva visto la moglie piangere silenziosa, nel vedere un talento soffocato, bloccato, stroncato – e adesso, il signor Klejman aveva visto quella che i ragazzi credevano fosse una rivoluzione, la fine di un comunismo già finito, e il perpetuarsi di corruzioni mai tramontate, di divisioni e ingiustizie mai colmate. ”Qui in Russia nessuna rivoluzione è stata mai portata in fondo, neanche quella a cui tutto il mondo ha guardato”, dice amaro, dall’ufficio del suo Museo del cinema, che ha una sala piccola come un cineclub di provincia. Ed è il museo del cinema di una delle capitali del cinema, quella che poteva contrastare il modo americano di raccontare la vita, ad altri umani vivi. ”Oggi c’è un modo solo di raccontare la vita, di fotografare la vita, di spiegare la vita: ed è quello dei film americani. Prima, forse ce n’erano almeno due, o addirittura molti. La nostra vita è cambiata, ora tutto il mondo è lo specchio degli Stati Uniti”, dice. E non ha torto.
Tira fuori una delle sue sigarette che sembrano Nazionali senza filtro, guarda con quegli occhiali da presbite dalla montatura vecchia, fuori moda, ha una camicia blu lisa, vecchi mocassini, occhi azzurri intelligenti, ma troppi denti in meno di quelli che dovrebbe avere chi ha un buon dentista. Dice: ”tutte le rivoluzioni si sono fermate, qui. Quando hanno abolito la schiavitù, al tempo dello zar Alessandro, non hanno dato ai contadini la terra, e di fatto loro sono rimasti schiavi. La Rivoluzione di Lenin ha bloccato tutto, ma poi si è fermata a sua volta. Una società normale ha molti livelli di ricchezza, di status”, dice in inglese. ”In Russia ci sono stati solo due livelli: i ladri di Stato e i milioni di poverissimi. Una classe media, come la intendete voi, non esiste. Io sono un direttore di ente statale, ma non vado mai al supermercato. Non posso andarci, i supermercati costano troppo, il triplo che i mercatini. Io posso andare soltanto ai mercatini”. Era uno delle migliaia di intellettuali che non erano riusciti a farsi furbi, che erano rimasti al palo, a ingrossare le file dei poveri.
Salutò, con un sorriso dolcissimo. Lui però aveva il cinema, aveva conosciuto la bellezza, aveva conosciuto l’arte, aveva conosciuto gli artisti, aveva letto la storia. Di cui lui aveva fatto parte, nel ruolo della vittima. Ma non importava. Non è quello che conta, non è quello che conta. Non c’è ricchezza nella povertà interiore. ”Ora mi perdoni, devo andare a presentare un film. I ragazzi non conoscono i film di Ejzenstejn, così ogni due mesi introduco un ciclo di suoi film. Ma se vuole, ci vediamo domani sera. Io faccio una cena. A casa di Ejzenstejn. Venga, la prego. Sarà una cosa semplice”.
Tanti libri, tutte le pareti piene di libri, e in mezzo alla stanza un vassoio pieno del cibo che aveva preparato la figlia di Klejman, una ragazza magra e timida di trent’anni, con la pelle da ventenne, e una mesta dolcezza nello sguardo. Luca aveva portato uno strano liquore al caffè, che aveva trovato in un mercatino, e del vino italiano che aveva trovato, caro, al supermercato. Mangiarono dei ravioli russi, e altre cose che non ricorda. Perché la vita era tutta nei libri alle pareti, nello sguardo tranquillo di Klejman, in quello di sua figlia, nell’aria di conoscere un segreto. Non era aperta al pubblico quella casa, ma soltanto agli studiosi. Dentro, c’erano vecchi libri. Con appunti ai lati dello scritto, scritti con una grafia fine, a matita. Libri di Lewis Carroll, di James Joyce, ma anche di Dostoevskij, di Flaubert, di Blazac, di Shakespeare, di Dante. Va beh, in fondo qualunque russo colto avrebbe avuto gli stessi libri. Poi, alle pareti, Luca vede una vignetta di Topolino, un Topolino anni ’30, ancora imperfetto, in bianco e nero. C’era, sotto, una dedica: ”Al mio grande amico Sergej. Walt”. Walt era proprio lui. Allora era esistito, nella storia del mondo, un uomo che si chiamava Walt Disney. E poco più lontano, una lettera. La firma: Charlie. Charlie Chaplin, naturalmente. Bastava guardare, e non c’era regista, musicista, grande del Novecento che non fosse passato da lì. ”Ci sono molti libri in inglese… E tutti sono appartenuti ad Ejzenstejn”. Ejzenstejn, il regista della ”Potëmkin” maledetta dalla battuta di un attore geniale e cialtrone, di ”Ottobre”, di ”Ivan il terribile”, delle immagini furenti e solenni della ”Congiura dei boiardi”. Aveva abitato lì, aveva annotato i suoi libri, si era seduto per anni su quella poltrona, dove adesso stava Luca, aveva cucinato in quella cucina. Impressione strana, come di guardare qualcuno dal buco della serratura, come di vederlo nudo.
C’erano biglietti di amici che si chiamavano Harpo Marx, James Joyce, Fernand Léger. Come se la storia del Novecento fosse passata da quel salotto, come se tra quelle poltrone stremate de quel tavolino si fosse seduta la storia del mondo, come se le rivoluzioni le idee i geni avessero preso insieme il tè, Harpo Marx che si ubriaca di vodka con James Joyce, Walt Disney che discute di futurismo con Fernand Léger, Chaplin che telefonava da Hollywood… Forse non era andata così. Forse erano stati più i giorni di solitudine, di neve alla finestra, di scoraggiamento, come sempre. Giorni nei quali Ejzenstein era riuscito a fondere, rifondere, rifondare la sua biblioteca, secondo una visione del mondo tutta sua. ”Vede? Tutti i libri li aveva messi in un ordine preciso, personale, ogni posto aveva un significato. Hegel, qui, è a testa in giù. Non è uno sbaglio. Accanto c’è Karl Marx: Marx aveva rovesciato le idee di Hegel, ne aveva messo sottosopra le idee, per renderlo compatibile con le proprie. Si potrebbe dire che qualcuno farà lo stesso con Marx, ma è un discorso che ci porterebbe lontano…”, e sorrise, con l’abitudine all’allusione, che doveva avere coltivato in decenni di Kgb senza volto, potenzialmente in ogni volto.

…continua…

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